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giovedì 2 ottobre 2014

La matematica povertà

In questo spazio vorrei aiutarvi a calcolare matematicamente la formula della povertà. Per ottenere questo risultato occorre determinare quali sono le sue componenti fondamentali. Cominciamo con i salari che contrassegneremo con la lettera S. Questa variabile è direttamente proporzionale alla povertà. Del resto, meno soldi si maneggiano e più difficoltà si hanno nel gestire la quotidianità. Un'altra variabile importante e che contrassegneremo con la lettera T sono le tasse. Più sono alte e maggiori sono le probabilità che vi siano difficoltà economiche per i cittadini. Altra voce che determina il risultato finale sono i consumi (lettera C). Una depressione di questa voce comporta spesso l'avvicinamento alla povertà. La produzione industriale (lettera P) è inversamente proporzionale alla povertà e influenza direttamente il benessere. Altri importanti fattori della formula sono la disoccupazione (d), la corruzione (c), l'evasione fiscale (E) e il debito pubblico (D). Ne consegue che l'equazione matematica della povertà (p) è:

p= D+T+E+c+d -(S)
C
e quella del benessere è:
B= C +(S)
D+T+E+c+d

Se al termine del calcolo scoprirete che avete un alto indice p ed un B basso significa che siete nei guai... o che siete in Italia.

mercoledì 14 maggio 2014

Ritratti di due scrittori torinesi appassionati di fantascienza Davide Ghezzo, Claudio Calzoni e i loro mondi fantastici




Nell’ambito del panorama letterario torinese del sottobosco poetico e narrativo della città subalpina, vogliamo segnalare ai lettori de Il Monviso, due autori particolarmente interessanti, che si muovono entrambi nell’ambito della letteratura fantastica e fantascientifica, vale a dire Davide Ghezzo e Claudio Calzoni, due autori che sono legati tra loro anche da una profonda e antica amicizia.
Davide Ghezzo è nato a Torino nel 1959. Docente di materie letterarie e di latino nei licei torinesi, è sposato, ha due figli ed è un appassionato da letteratura fantastica e fantascienza. I suoi libri più recenti sono “After Wells” (un bel saggio sulla fantascienza novecentesca) e “Il tempo del serpente”, un avvincente “antiromanzo” ambientato a Torino. Entrambi i libri sono pubblicati dalle Edizioni della Vigna (Milano). Ma Ghezzo si è cimentato anche con la poesia, pubblicando il volumetto “La colpa di Psiche”, nonché saggi come “Eroi in diacronia”, pubblicato dalle Edizioni Ippogrifo, di Luigi Di Cesare, oppure “Dei padri fondatori”, pubblicato da Elara Edizioni, con il quale ha ricevuto il Premio Italia 2010 per la saggistica. Davide Ghezzo è un uomo colto, di piacevole conversazione, uno scrittore che ama molto ritagliarsi degli spazi di solitudine per fantasticare e dare vita a saggi e racconti in cui, spaziando dal fantastico alla fantascienza, infonde vita sulla carta ai propri mondi interiori.
Claudio Calzoni, anch’egli nato nel 1959, dopo aver frequentato Lettere all’Università, si è dedicato al commercio e lavora con i genitori nell’esercizio commerciale di famiglia. Sposato, anch’egli ha prole ed è amicissimo di Davide Ghezzo, sin dai tempi delle scuole elementari. Con Davide condivide la passione per la fantascienza e la letteratura fantastica. Nei ritagli di tempo sottratti al lavoro, scrive poesie e racconti, nei quali, gli elementi fantastici si amalgamano con toni apocalittici e vicende legate alla magia e all’esoterismo. L’ultimo libro pubblicato da Calzoni è la raccolta di racconti fantastici “Magie oscure”, edita dalle Edizioni Hogwords (Pinerolo), libro che contiene anche un poemetto apocalittico intitolato “Millenium”. Tra le altre sue opere, la raccolta di poesie “Dannati e altre storie”, pubblicato da Rangoni nel 1997, il romanzo fantastico “Il Re Malato” (edito dalle Edizioni Ippogrifo, nel 1999). Sempre per Ippogrifo, insieme agli amici Ghezzo e Luigi Di Cesare, ha pubblicato il volume “I tre tempi della profezia”, che contiene tre romanzi brevi: “La forza del delirio” di Di Cesare, “Il dio delle talpe” di Ghezzo e “La traccia del fuoco”, per l’appunto, di Calzoni. Calzoni è uno scrittore gioviale e simpatico, molto caloroso, con il quale fa piacere condividere momenti conviviali. Per chi volesse mettersi in contatto con loro o richiedere i loro libri, eccovi le rispettive e-mail:

Fabrizio Legger

martedì 13 maggio 2014

Giorgio Alessandro Bonnin: un grande poeta




Con la scomparsa di Giorgio Alessandro Bonnin, all’età di soli 65 anni, Pinerolo perde un poeta autentico. Appassionato di bocce, lingua e cultura piemontese, politica (fu segretario della Sezione locale di un noto partito politico delle Valli Chisone e Germanasca), Giorgio Bonnin, per me e per molti altri amici poeti del Pinerolese, fu soprattutto un vero poeta. Sentirlo leggere le sue poesie, garbate ma ironiche, con quella sua voce dal timbro inconfondibile, era per noi un immenso piacere: sia che leggesse versi in lingua italiana, sia in lingua piemontese. Sapeva scorgere il lato comico delle cose, ma anche creare immagini di intensa bellezza: le sue poesie erano sciolte, scorrevoli, piene di sentimento e di tanta ironia. Giorgio partecipava alle attività del Gruppo Letterario Arci e ai concorsi di poesia non solo del pinerolese, ma di tutta Italia. I sui contati via internet con poeti e poetesse di ogni parte della penisola, erano numerosissimi. Ci mancherai molto, caro Giorgio, ma noi poeti abbia vivissima la speranza di ritrovarsi tutti in quel mondo spirituale che cantiamo sovente nei nostri versi, perciò, caro amico poeta, non ti saluto con un addio, ma con un intenso e caloroso “arrivederci”!

Fabrizio Legger

















giovedì 17 aprile 2014

Too big to fail




Too big to fail” è uno slogan con cui è stato condito il periodo della golden-age statunitense che vedeva Alan Greenspan per 18 anni, fino 31 gennaio 2006, Segretario del Comitato dei Governatori della Federal Reserve, e Bill Clinton Presidente dello Stato. In realtà, è da quando arrivò un economista inglese di nome J.M. Keynes che tale tesi ha iniziato a diffondersi. Sia inteso, credo che Keynes e Roosevelt abbiano fatto parecchio per aprire gli occhi all’umanità. L’unica pecca, oggi più che mai lo si può riscontrare, è proprio la visione di ciò che “è troppo grande per fallire”. In realtà, il concetto keynesiano ha una sua ferrea logica. Il fallimento di un’impresa rappresenta un momento tra i peggiori che il mercato deve affrontare. Quindi, meno probabilità esistono di arrivare a questa pratica e meglio è… In teoria. Nella pratica così non è. Se vogliamo è molto più efficiente ed efficace pensare che il fallimento di una piccola impresa implichi delle “piccole” problematiche da risolvere, così come per una grande azienda si hanno conseguenze negative più “grandi”. La Lehman Brothers Holdings Inc. azienda statunitense fondata nel 1850, era una banca d’affari a livello globale. La sua attività si concretizzava nell'investment banking, nell'equity e fixed-income sales, nelle ricerche di mercato e nel trading, nell'investment management, nel private equity e nel private banking. Il 15 settembre 2008 ha annunciato la procedura molto simile al concordato preventivo della Legge Fallimentare italiana, annunciando debiti bancari per 613 miliardi di dollari, debiti obbligazionari per 155 miliardi e attività per un valore di 639 miliardi, la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti. La società è ancora esistente, fino al completamento della procedura di bancarotta. Anche i grandi possono fallire, tanto che il “too big” si è portato con sé insofferenze bancarie e commerciali a livello globale che paghiamo tutti, ancora, oggi. In Italia abbiamo avuto il caso Parmalat ma nuovi “big” si stanno affacciando all’orizzonte. In un mercato globale fatto di pezzi di domino poco importa chi casca per primo. Il risultato finale è per tutti sempre lo stesso. 

lunedì 14 aprile 2014

Il lupo e il giaguaro





Tratto da GATELAND di Tomatis Pier Giorgio

V Il Lupo e il Giaguaro  

    Quella notte fu parecchio tormentata. Ogniqualvolta mi addormentavo mi risvegliavo dopo nemmeno un'ora, madido di sudore ed intirizzito per il freddo. Il mattino seguente, Maddie sostenne anche che, durante il sonno, pronunciai più volte la parola megaliti ed altri termini invece incomprensibili, legati forse a lingue o dialetti stranieri. Di tutto ciò io non ricordavo proprio nulla. Sapevo solo che al quarto tentativo riuscii ad addormentarmi fino a mattina. Sognai. 

 

    Non mi capitava spesso di sognare, né di avere un sonno tormentato, perciò non faticai molto ad annotare ogni partico-lare della mia attività onirica e già questo poteva essere motivo per rammentare quella notte. Eppure c’era anche dell’altro. Nel mio sogno le immagini che mi si presentavano davanti avevano forme sempre mutevoli, pur se riconoscibili. 

                                                                                     

    Ricordavo con precisione di trovarmi lanciato in una folle corsa sul manto erboso di un vasto altopiano nella penombra delle prime ore della sera. La luce appariva e scompariva velocemente, il panorama cambiava forma improvvisamente e faceva sembrare tutto ciò che pensavo di vedere come una folle danza. Io corsi incurante della fatica e dei dolori muscolari finché ciò che era, con ogni probabilità, un altopiano su-damericano comparabile a quello di una cartolina turistica si trasformò in qualcos’altro. 

    Anche per effetto del tramonto inoltrato, il paesaggio attorno a me iniziò a cambiare ed io ad avere sempre meno punti di ri-ferimento. Non appena scorsi, in lontananza, degli alberi di una foresta secolare, leggermente rischiarati da riflessi di un ba-gliore rossastro, mi fermai per riposare alcuni istanti vicino ad un albero. Alzai la mano sinistra e la appoggiai sulla spessa corteccia che avvolgeva, come in un appassionante abbraccio, il suo tronco. 

    Mi guardai intorno e notai da dove aveva origine il colore rosso che si rifletteva in gocce d’acqua che il fogliame aveva trattenuto da una recente pioggia. Aggrottai le sopracciglia. Misi a fuoco l’immagine. Un piccolo barlume di luce, in lontananza, si faceva strada tra le foglie ed i rami come un dardo scoccato da un arco fende l'aria fino a raggiungere il suo bersaglio. Mi invitava a raggiungerlo. Curiosità o istinto che fosse a spingermi, mi avviai in quella direzione.

    Una voce serena e suadente invocò il mio nome. Nathan. Oh, Nathan. Finalmente sono riuscito a raggiungerti. Vieni, vieni da me disse lo sconosciuto con voce commossa. Senza saperne il motivo seguii la luce e la voce sino a raggiungere una piccola radura, appena rischiarata e scaldata dal tepore di un fuoco di bivacco. Seduto, accosciato davanti ad esso vi era un uomo quasi completamente coperto dalla pelliccia di un lu-po, tanto che non riuscii a distinguerne i lineamenti del viso. 

    Sul suo collo penzolava una piccola sacca di cuoio con ap-puntata la pelle di un piccolo animale dei boschi, credo si trattasse di un roditore, e un rostro, forse il becco di un’aquila, che spuntava come un corno dal lato sinistro della testa di lupo. Il fisico era esile e l'altezza modesta. In terra alla sua destra, a portata di mano, vi era una lancia algonchina ornata di seta, cuoio e piume variopinte. Alla sua sinistra, invece, uno strano tamburo, anch’esso ornato di piume e pitture varie. Al centro di esso, sopra il cuoio di cui era formato, vi erano ciottoli e piccole ossa. 

    Siediti, giaguaro... disse alzando lo sguardo e fu solo allora che notai il suo viso e il mio vestito. L'uomo aveva un piccolo viso rotondo, capelli corti e neri, due occhi a mandorla e dei lineamenti che ricordavano quelli di un pellerossa o di un asiatico. Sforzandomi di vederne meglio la figura, notai che si trattava del vecchio che per le strade di Chicago mi avvertì che John Littletrees non era morto. Maggiore stupore provai nel vedere che dalla mia fronte, a risalire il capo per poi scendere fino oltre ai fianchi, vi era una pelle di giaguaro e a tracolla la mia splendente katana con impugnatura raffigurante un cobra. 

    Chi sei? chiesi rivolgendomi verso l'uomo con la pelle di lupo. 

    Non lo hai ancora indovinato, giaguaro? Rispose enig-matico il vecchio scuotendo la testa.

    John Littletrees… risposi quasi senza pensarci.

    Bene. Io sono lui e come vedi non sono morto. Non ti far trarre in inganno dal fatto che mi stai vedendo in sogno. Mor-morò il vecchio.

    John Littletrees, sciamano lupo, fiero ed instancabile spirito guida del popolo Algonquin è vivo e vegeto. Quella notte morì un altro fratello rosso, il quale venne scambiato per me. Disse con la voce rotta per la commozione.

    Perché? Chi ti voleva morto? Incalzai.

   Sei veloce e freddo come l'animale di cui porti il nome, Nathan. Replicò il pellerossa con gli occhi illuminati. 

    Si, sembra difficile a credersi. Che un vecchio e pacifico uomo come me possa avere un nemico che voglia strappargli la vita... è incredibile. Ma è proprio così. Pur essendo vecchio e pur ringraziando ogni giorno il Grande Spirito per la saggezza di cui mi ha fatto dono, una mia leggerezza mi ha dannato forse per sempre. 

    Il vecchio prese a scuotere i pezzi di brace ed il fuoco dipinse di rosso e riscaldò i nostri volti. Alcuni anni fa, venni coinvolto, con alcuni fratelli rossi in un operazione militare legata ad aiuti umanitari. Almeno, questo è quello che ci dissero. La lingua dell’uomo bianco sa essere più biforcuta di quella di un serpente e il suo morso assai più velenoso. In realtà, ricuperammo per conto di alcune persone degli oggetti che avrebbero dovuto essere distrutti e che invece segnarono per sempre la nostra vita. Forse, con quel gesto, abbiamo condannato il mondo. 

 

    Fu allora che conobbi la mano destra del Diavolo. Il tono della sua voce si fece più duro. 

   La mano Deglutii incredulo. Di cosa si tratta? 

    Di chi… vuoi dire? Ebbene sì. La mano destra del Diavolo è il nome che il popolo rosso, nella sua infinita saggezza, ha dato ad un uomo molto pericoloso. Tuttavia, egli è come un bambino e potrebbe essere ricondotto verso la giusta via. Come un’arma dipende dalla mano che la usa anch’egli è assai meno pericoloso di chi lo impugna. E’ il Diavolo l’essere da cui io debbo difendermi

    Chi? Replicai incredulo e sospettoso.

    Il Diavolo è un uomo che sta cercando di realizzare un pro-getto perverso. Egli è già venuto a sapere della tua esistenza e sta pensando di dannarla cosi come ha fatto con la mia. Sei stato incauto, fratello del popolo rosso. Ti sei fidato di troppe persone. Gli occhi e le orecchie del Diavolo sono ovunque e l’uomo saggio deve essere cauto ed attento nella sua ricerca della verità.

 

    Stai parlando in modo sempre più enigmatico affermai spa-zientito. Vorrei tu fossi più chiaro.

    Sarò sempre al tuo fianco. Seguirò ogni tua mossa. Non avrai bisogno di chiamarmi per chiedere il mio aiuto perché vedrò tutto ciò che i tuoi occhi vedranno, sentirò tutto ciò che le tue orecchie sentiranno e anche di più… Il vecchio parlò con tono fiero e maestoso. La sua fiducia nelle proprie capacità doveva essere infinita.

    Ebbene il mio compito oggi è quello di metterti in guardia. Presto, molto presto, gli amici si trasformeranno in nemici e chi voleva uccidere me cercherà di fermarti ad ogni costo. Esclamò sibillinamente il pellerossa alzandosi in piedi.

    Fermarmi dal fare cosa e perché mi chiami giaguaro? Gridai sempre più spazientito.

    Come vedi io non sono morto giaguaro, ma per il mondo dei visi pallidi non esisto più. Ho fatto perdere le mie tracce. Mi sono rifugiato in un luogo ben nascosto dove il mio potere è molto forte, dove le grandi rocce deposte dagli antichi sal-vaguardano la mia incolumità, posti come Carnac, Msoura, il lago Turkana o Uluru. Il segreto di questi posti è noto solo agli antichi e a tutti coloro che hanno avuto un contatto con essi. Mormorò il vecchio impugnando la lancia, invitandomi a rialzarmi ed a seguirlo.  

    Presto toccherà anche a te far perdere le tue tracce. Ricorda il mio consiglio. Fai sparire ogni indizio che possa portare a te. Renditi invisibile agli occhi del mondo dei bianchi. Solo così potrai difenderti dall'attacco degli altri predatori. Quando ciò accadrà comincerai a capire perché il tuo totem è legato a quello del giaguaro e ricorda ancora che, d'ora in poi, ogni volta che vedrai un lupo sul tuo cammino sarà il segno che io vorrò parlarti o darti qualche suggerimento. Il mio tempo è scaduto, Nathan...

     Nathan, Nathan, Nathan... sveglia è ora di alzarsi. La voce tenue e melodiosa di Madeleine mi stava riportando alla realtà.

    Bofonchiai qualcosa di incomprensibile persino a me stesso. Aprii gli occhi. Mi trovavo sdraiato nel mio letto, Maddie in-dossava la vestaglia della notte e mi stava aiutando a rialzarmi. In un altro momento, vederla vestita così avrebbe risvegliato dei pensieri sensuali. In quegli istanti, invece, riuscii solo ad abbracciarla e a stringerla a me come se non avessi potuto vederla mai più. E forse era proprio così.

    Che ti prende, Natty? Qualcosa non va? Esclamò Maddie preoccupata.

    Senza risponderle allentai la presa, la baciai e mi rialzai faticosamente.

venerdì 11 aprile 2014

A-Team





C’era una volta l’A-Team. Si trattava di un commando di reduci del Vietnam vittima di un errore del sistema giudiziario. Evasi dalla prigione militare nella quale si trovavano rinchiusi, vivevano dandosi costantemente alla fuga, braccati dalla polizia e dall’esercito per un reato che non avevano mai commesso. Il gruppo veniva assoldato da varie persone o gruppi che vivevano atti d'ingiustizia dai quali intendevano ricevere adeguata difesa. I personaggi principali erano 4: John "Hannibal" Smith, Templeton "Sberla" Peck, Bosco Albert "P. E."(Pessimo Elemento) Baracus e H. M. Murdock detto “Il Pazzo”. Per quasi un anno ci è stato detto che il governo presieduto dal primo ministro Mario Monti e un po' come l’A-Team. È stata la classe politica incapace di risolvere i problemi per i quali hanno ricevuto la delega a governare da parte di cittadini a richiederne i servigi e la competenza. Mi divertivano molto gli episodi della serie ma non pensavo che li avrei mai detestati così tanto come ora. Forse non ci tengo a passare per l'istituzione cattiva che ingiustamente bracca i componenti dell’A-Team nel tentativo di condannarli e rinchiuderli in carcere o molto più semplicemente mi rifiuto di credere che un gruppo di lobbisti privilegiati e strapagati osservino lo sfascio economico e sociale del mio paese da una comoda e protetta posizione senza svolgere il loro unico e fondamentale compito. Io non credo che le scelte politiche, economiche e sociali, fatte dal governo Monti (poi Letta e ora Renzi) abbiano portato, o porteranno in futuro, alcun beneficio, viceversa, credo che dell'impoverimento generale del nostro paese debbano essere considerate colpevoli esattamente quanto la classe politica che ha assistito inerte e controfirmato ogni singola legge. Dov'è la politica? Cos’è l'antipolitica? Dove ci vogliono portare coloro che ricevono soldi "a loro insaputa", che non pagano nessun servizio o prestazione o merce ma ricevono rimborsi stratosferici? Come dormono la notte coloro che ritengono che sia più fondamentale aumentare le tasse che non creare lavoro, che combattono l'evasione dello scontrino mancato ma che temporeggiano fino a snaturare una seria lotta alla corruzione? Qualunque siano le risposte a queste domande mi sto convincendo che saremo noi cittadini a chiamare l’A-Team, quello vero, quello che non deve favori a nessuno e che lotta per una causa e per dei valori che l’M-Team, quello autoctono, non possiede nel suo Dna. E dopo che vinca il migliore.

lunedì 24 marzo 2014

Che cosa si può fare in un secondo?



In un secondo si può iniziare a dare un bacio al/la partner, accarezzare il proprio animale da compagnia, decidere di chiamare un amico o parente lontano che non si vede da anni e col quale non si hanno più rapporti. Basta per modulare il suono della propria voce mentre stiamo alterandoci in una discussione o per scegliere di tacere e di ascoltare le istanze di chi ci sta vicino.
Un secondo è quanto è sufficiente per decidere di fare qualcosa. Un secondo non può essere per sua natura un tempo da riflessione ma è logico che esso appartenga all’azione pura.
Quante cose si possono fare in questo lasso di tempo? Einstein sosteneva che più inportante della conoscenza è la fantasia. Aveva perfettamente ragione. Il limite che diamo alle cose che si possono fare in un secondo è determinato dalla nostra fantasia del pensarle.
Un secondo è più che sufficiente ad un politico per votare SI ad una legge che impone una tassa per quegli immobili sfitti che i proprietari lasciano vuoti piuttosto che ridurre le proprie pretese, ad un’altra che riprenda lo spirito rooseveltiano e imponga a chi detiene una quota di mercato che eccede il 20% un aumento progressivo dei balzelli per quell’eccedenza sino ad arrivare alla soglia del 90%. Un secondo è ciò che separa il pensiero dall’azione per rivoluzionare il nostro mondo post industriale distrutto dal concetto stesso di “rapporto trimestrale”. Le Borse degli Stati sono aperte 5 giorni la settimana e per dare un senso ai movimenti di denaro i CDA chiedono agli Amministratori Delegati di ragguagliar loro lo stato dell’azienda ogni 3 mesi. In 90 giorni il massimo dirigente di un’azienda deve saper creare utili da offrire in pasto agli squali affamati del CDA. In 90 giorni nessun progetto industriale ragionato può prender corpo e dar frutti. Però in un secondo si può decidere di tenere aperte le Borse un solo giorno la settimana e allontanare nel tempo i rapporti che diverrebbero esecutivi ogni 15 mesi. Si tratta di un tempo sufficiente per rivoluzionare la propria azienda, legarla di più ai progetti ed ai prodotti, slegarla dalle valute e dalla finanza pura. Un secondo è importante anche per Angela Merkel. E’ ciò che la separa dalle sciocchezze e dalla testardaggine, dal razzismo e dal nazionalismo.
Un secondo è una parte della nostra breve vita e dovremmo averne cura come fosse una persona cara.

Un secondo è ciò che divide il mio dito dal tasto invia per questa mail. Come capire quale scelta avrò fatto? Spendendo bene un solo altro secondo…